E ho scoperto tutta la storia che si cela dietro questo sostantivo, che narra un mestiere antico, oggetto di leggende e narrazioni epiche.
Il gabbiere è colui che si arrampica in cima ai pennoni delle barche a vela, per manovrare le vele.
Quella posizione privilegiata, gli permette di avere uno sguardo dall’alto, e avvistare per primo pericoli e meraviglie del mare: mostri marini, sbuffi di balene, sirene, banchi di pesci, nubi minacciose, terra.
Terra.
Ma è anche colui che, a causa della sua posizione, e forse di una certa inevitabile lungimiranza, sta fuori dalla comunità, staccato da tutti.
Mi é sembrata una bella metafora, vera e molto aderente alla realtà.
Della capacità di guardare le cose dalla giusta prospettiva; di prendere distanza dalle cose che non comprendiamo o che ci è difficile capire, per scoprire che la verità non è sempre quella che ci appare davanti agli occhi.
E soprattutto non è solo quella che si cela nelle nostre tasche.
E che questo a volte può essere una condanna, per noi stessi e per quella comunità che la verità non vuole accettarla o semplicemente vederla.
E preferisce credere che certe increspature d’onda siano pesci da pescare.
Si possono prendere abbagli clamorosi, quando si crede di sapere tutto, di avere capito tutto.
Ma se si ha il coraggio di salire sul pennone della nave, e donarsi una nuova prospettiva, forse è possibile scoprire che quello che sembrava un enorme mostro marino, era in realtà un abbaglio, un gioco di rifrazione di sole e mare.
Una verità fittizia, che sfugge dalle dita.
Che bello sarebbe avere un gabbiere a disposizione: non una Cassandra, che preveda sventure, ma una bussola ad indicarci per primo la direzione.
E allora serve essere lassù, da soli, a riflettere sulle proprie paure, e a curarle con la bellezza che si cela dietro l’angolo, come un orizzonte infinito, o un banco di delfini che giocano nel mare.
O magari intravedendo finalmente terra, per approdare a se stessi.